venerdì 6 novembre 2009

• «Ma io difendo quella Croce»

Non amo le esagerazioni e le esasperazioni di Marco Travaglio. Almeno quelle che manifesta spesso in TV. Ma sarei un ipocrita se dicessi che ciò che dice o scrive mi lasci indifferente, non mi provochi. Questo è uno di quei momenti che desidero partecipare. Ringrazio perciò Travaglio, ma anche Luigi Accattoli che attraverso il suo blog me lo ha fatto scoprire.
«Se dobbiamo difendere il crocifisso come “arredo”, tanto vale staccarlo subito. Gesù in croce non è nemmeno il simbolo di una “tradizione ” (come Santa Klaus o la zucca di Halloween) o della presunta “civiltà ebraico-cristiana” (furbesco gingillo dei Pera, dei Ferrara e altri ateoclericali che poi non dicono una parola sulle leggi razziali contro i bambini rom e sui profughi respinti in alto mare). Gesù Cristo è un fatto storico e una persona reale, morta ammazzata dopo indicibili torture, pur potendosi agevolmente salvare con qualche parola ambigua, accomodante, politichese, paracula. È, da duemila anni, uno “scandalo” sia per chi crede alla resurrezione, sia per chi si ferma al dato storico della crocifissione. L’immagine vivente di libertà e umanità, di sofferenza e speranza, di resistenza inerme all’ingiustizia, ma soprattutto di laicità (“date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”) e gratuità (“Padre , perdona loro perché non sanno quello che fanno”). Gratuità: la parola più scandalosa per questi tempi dominati dagli interessi, dove tutto è in vendita e troppi sono all’asta. Gesù Cristo è riconosciuto non solo dai cristiani, ma anche dagli ebrei e dai musulmani, come un grande profeta. Infatti fu proprio l’ideologia più pagana della storia, il nazismo – l’ha ricordato Antonio Socci - a scatenare la guerra ai crocifissi. È significativo che oggi nessun politico né la Chiesa riescano a trovare le parole giuste per raccontarlo. Eppure basta prendere a prestito il lessico familiare di Natalia Ginzburg, ebrea e atea, che negli anni Ottanta scrisse: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. È l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”. Basterebbe raccontarlo a tanti ignorantissimi genitori, insegnanti, ragazzi: e nessuno – ateo, cristiano, islamico, ebreo, buddista che sia - si sentirebbe minimamente offeso dal crocifisso.»
(estratto da: Marco Travaglio su 'Il fatto quotidiano' del 5 novembre 2009)

domenica 1 novembre 2009

• Da cristiani in politica. A Livorno.

Ogni norma pubblica parte dalla fotografia del presente (così come letta dai promotori dell’atto) e cerca di prevedere quanto può accadere e si vorrebbe accadesse in un periodo successivo sulla base dei criteri di lettura prescelti. Ogni norma ha l’obiettivo di fissare su un tema definito le regole di convivenza dei diversi che insistono in un certo territorio. Nessuno può rifiutarsi alla proposta ed al confronto su un tema (anche ‘eticamente sensibile’); rifiutando ogni fondamentalismo, comunque motivato. Per far questo occorre impegnarsi ad aumentare la qualità di formazione e conoscenza ed a far maturare una cultura (propria, della propria famiglia e della Comunità) in modo da essere in grado di confrontarsi con quella di chi è diverso. Chi nella Comunità è assunto come punto di riferimento di quella cultura, chi è stato chiamato ad un ruolo di guida deve aiutare questo cammino non solo esprimendo valutazioni contingenti (importanti ed essenziali) ma anche predisponendo o sostenendo percorsi preliminari di formazione che consentano il richiesto esercizio di un ruolo autonomo, compatibile con le regole di convivenza nella Comunità, che tutti vincolano. Autonomia non significa isolamento, assenza, silenzio o assorbimento da parte degli uni sugli altri; ma ricerca permanente di ciò che unisce nel rifiuto di ogni sincretismo. Laicità come metodo per cercare soluzioni sagge, capaci di trasmettere fiducia e speranza alle persone, e mai punitive verso le loro convinzioni o la loro condizione. Non a caso la diocesi di Livorno si è impegnata in questa direzione fin dagli anni ’50 col lavoro degli assistenti della FUCI diocesana, prima, (Chi non ricorda il lavoro di don Renzo Bellomi, di don Giulio Tavallini, di don Mario Gilardi?) e con quello della formazione all’impegno socio-politico da parte di don Roberto Corretti, di Padre Pino Piva con proseguimento fino all'anno 2006 da parte dell’ufficio per la pastorale sociale. Certamente poi alla facoltà, volontà ed impegno di ciascuno il compito di renderlo vivo, vissuto. Nessuno, quale che sia il ruolo che ha scelto di esercitare nella Comunità, può prescindere dai principi cosiddetti ‘fondamentali’, negoziarli con chicchessia. Nel documento diocesano ‘da cristiani in politica’, proposto a Livorno nel 2006, a proposito delle relazioni tra cristiani e politica, tra l’altro, si affermava: «• L’uomo e la donna possono realizzare sé stessi, quando vivono, progettano ed agiscono nella Comunità, in relazione con altri uomini e donne. Si pongono in ascolto, riflettono, dialogano, progettano, costruiscono al servizio di se stessi e di tutti. • La società politica esiste da sempre, perché le istituzioni sono di tutti quelli che ne fanno parte, qualsiasi fede professino. La politica è laica. Laici sono i valori a cui essa si ispira. Laiche le finalità cui tende. • L’invito a “far politica” è stato sempre letto come invito a farsi cibo per la vita degli altri, per la crescita nell’amore di ciascuno e di tutti. Perciò le relazioni fra politica e cristiani, tra Stato e Chiesa sono concepite e realizzate commisurandole ai diversi contesti storici, sociali ed ecclesiali. • Per i cristiani l’essere laici è da intendersi non come separazione tra diversi, ma come «fecondazione reciproca» (Giovanni Paolo II, 2005); comporta che, senza rinunciare alla propria identità, credenti e non credenti cerchino insieme piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile in una data situazione, consapevoli delle necessarie condivisioni accertate. • «Il fedele laico è chiamato ad individuare nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. [...] La fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica, in cui l’uomo vive, impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli» (Compendio Dottrina Sociale della Chiesa, n. 568)»